In – principio / parole

La distruzione delle parole

«È qualcosa di bello, la distruzione delle parole. Naturalmente, c’è una strage di verbi e aggettivi, ma non mancano centinaia e centinaia di nomi di cui si può fare tranquillamente a meno. E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo l’opposto dell’altra? Ogni parola già contiene in se stessa il suo opposto. Prendiamo “buono”, per esempio. Se hai a disposizione una parola come “buono”, che bisogno c’è di avere anche “cattivo”? “Sbuono” andrà altrettanto bene, anzi meglio, perché, a differenza dell’altra, costituisce l’opposto esatto di “buono”. Ancora, se desideri un’accezione più forte di “buono”, che senso hanno tutte quelle varianti vaghe e inutili: “eccellente”, “splendido”, e via dicendo? “Plusbuono” rende perfettamente il senso, e così “arciplusbuono”, se ti serve qualcosa di più intenso. Naturalmente, noi facciamo già uso di queste forme, ma la versione definitiva della neolingua non ne contemplerà altre. Alla fine del processo tutti i significati connessi a parole come bontà e cattiveria saranno coperti da appena sei parole o, se ci pensi bene, da una parola sola. Non è una cosa meravigliosa?» «Ovviamente» aggiunse come se gli fosse venuto in mente solo allora, «l’idea iniziale è stata del Grande Fratello. Non Hai ancora capito che cos’è la neolingua, Winston» disse in tono quasi triste. «Anche quando ne fai uso in quello che scrivi, continui a pensare in archeolingua. Ho letto qualcuno degli articoli che ogni tanto pubblichi sul “Times”. Non c’è male, ma sono traduzioni. Nel tuo cuore preferiresti ancora l’archeolingua, con tutta la sua imprecisione e le sue inutili sfumature di senso. Non riesci a cogliere la bellezza insita nella distruzione delle parole. Lo sapevi che la neolingua è l’unico linguaggio al mondo il cui vocabolario si riduce giorno per giorno?»

Winston lo sapeva, naturalmente. Non volendo correre il rischio di esprimere opinioni, si limitò a un sorriso che intendeva essere di assenso. Syme dette un altro morso al pezzo di pane nero, lo masticò, poi riprese:

«Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà stato rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari, che saranno stati cancellati e dimenticati. Hai mai pensato, Winston, che entro il 2050 al massimo nessun essere umano potrebbe capire una conversazione come quella che stiamo tenendo noi due adesso?»

«Tranne…» cominciò a dire Winston con una certa esitazione, ma poi si fermò.

Era stato sul punto di dire “i prolet”; poi si era controllato, perché non era sicuro dell’ortodossia della sua osservazione. Syme, però, aveva indovinato quello che lui stava per dire.

«I prolet non sono esseri umani» disse con noncuranza. «Per l’anno 2050, forse anche prima, ogni nozione reale dell’archeolingua sarà stata distrutta: Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron, esisteranno solo nella loro versione in neolingua, vale a dire non semplicemente mutati in qualcosa di diverso, ma trasformati in qualcosa di opposto a ciò che erano prima. Anche la letteratura del Partito cambierà, anche gli slogan cambieranno. Si potrà mai avere uno slogan come “La libertà è schiavitù”, quando il concetto stresso di libertà sarà stato abolito? Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.»

Un giorno di questi, pensò Winston con improvvisa, profonda convinzione, Syme sarà vaporizzato. È troppo intelligente. Capisce troppe cose, parla con troppa chiarezza e al Partito questo tipo di persone non piace. Un giorno sparirà, ce l’ha scritto in faccia.

Longiano, 18 maggio MMVIII

Quando si è pensato a questa giornata, Simone mi ha chiesto di leggere alcune pagine che ci permettessero di riflettere in pubblico, ad alta voce, sulle motivazioni profonde, le spinte che ci portano a rendere concreto un desiderio che insieme e singolarmente ciascuno di noi cova da diversi anni. La necessità di definirsi, di riconoscersi in una determinata corrente o scuola di pensiero, riconoscendo autorità a certi maestri piuttosto che ad altri, rischia sempre di trascinarci nella semplificazione, nello schematismo, nell’ottusità. Più semplice definirsi per negazione, scegliendo di volta in volta chi non vorremmo seguire, che cosa non ci piacerebbe fare e così via, esperienza che capita di fare a tutti noi quotidianamente.

Questa volta però non si è neppure posto il problema: quella che ci spinge è un’esigenza vitale, una necessità che è nata probabilmente con noi e che si è rafforzata in questi anni di lavoro, anni fatti di scoperte affascinanti e di delusioni, anni nei quali abbiamo iniziato a conoscere il meglio e il peggio del teatro italiano, con le sue molte strade che portano al successo e alla disperazione, ma soprattutto anni nei quali abbiamo iniziato a scorgere la possibilità di una strada che sia la nostra. È la necessità di fare teatro, di raccontare delle storie immaginarie per cercare di capire il mondo “reale”, la necessità di non dimenticare la nostra storia, la nostra poesia, forse il dono più grande dei nostri Padri. La necessità di farlo come ci è stato insegnato dai nostri maestri, a scuola e fuori, il cui più grande insegnamento è credo il rispetto, moneta rara di questi tempi, ma per questo tanto più preziosa. Il rispetto è quello che i nostri genitori, forse tra gli ultimi a praticare con dignità questo difficilissimo mestiere, ci hanno insegnato a portare per noi stessi e per gli altri, per i beni nostri e quelli comuni. Il rispetto è quello che ci è stato insegnato nella Scuola di Teatro che tutti noi abbiamo fatto, il rispetto per il teatro (con e senza maiuscola), rispetto, per i costumi, per il personaggio, per il testo, per le donne e gli uomini che ci lavorano.

E allora la scelta delle parole da leggere oggi è stata naturale. Chi prima e più a lungo di tutti in Italia si è battuto perché l’etica del testo teatrale fosse anche un’etica delle persone, perché il teatro italiano fosse un teatro umano è stato il fondatore della nostra scuola, Giorgio Strehler. Per noi, che lo abbiamo conosciuto solo per interposta persona, attraverso decine di attrici, attori, macchinisti, sarte, direttori di scena che hanno condiviso con lui tutta una vita e attraverso gli scritti e le registrazioni dei suoi spettacoli, la figura di Strehler perde tutto quanto potrebbe avere di nostalgico, si libera dell’alone azzurrino del suo mito, non è più l’ingombrante Maestro del più grande e antico teatro stabile italiano. Oggi noi possiamo vederlo per ciò che è stato, uno degli uomini di teatro più importanti del Novecento, che non ha mai smesso di combattere contro l’insipienza e il cattivo gusto dominanti, che non ha mai smesso di amare il teatro e il pubblico. Un uomo che giudicava postumo il teatro su cui si affacciava da giovane nei primi anni quaranta, come forse noi oggi potremmo giudicare postumi e inattuali noi stessi, che scegliamo la via del teatro, una via minoritaria rispetto ai mezzi di comunicazione odierni e purtuttavia l’unica che mantenga vivo il rapporto tra l’artista e il suo pubblico, l’unica che attraverso la presenza concreta e palpitante dei corpi e delle parole possa far fronte alla solitudine delle realtà virtuali e catodiche, l’unica che con la sua essenza effimera, col suo durare una sera soltanto, non ci racconti la bella favola dell’immortalità.

Il secondo autore è uno dei più amati maestri di Strehler, Louis Jouvet, grande uomo di teatro francese ed europeo. La sua avventurosa tournée sudamericana fu una risposta alla barbarie della II guerra mondiale e alla vergogna del collaborazionismo francese; con la sua compagnia scelse di portare i classici antichi e contemporanei dall’altra parte dell’oceano in una “odissea drammatica” per sfuggire alla mediocrità e al cattivo gusto che imperavano in patria, una patria rosa dalla vigliaccheria e dal fascismo. Recitare Molière e Giraudoux era per loro un atto politico oltre che identitario, il riscatto della Francia terra della Libertà laica e cattolica contro i fascismi europei. Al ritorno da questo lungo viaggio, Jouvet e i suoi riscopriranno qualcosa che avevano da sempre con loro: il valore della propria poesia, l’eredità dei classici francesi, l’unica vera identità nazionale.

Noi europei viviamo oggi un periodo certo meno drammatico di quello in cui sono nate e maturate le esperienze di Jouvet e di Strehler; tuttavia la paura del terrorismo, la diffidenza e la violenza diffusa sono spie d’allarme, che ci segnalano quanto il ritorno dei fascismi non sia un’ipotesi fantasiosa ma un rischio concreto. L’esigenza di rispondere con il teatro, che è dialogo, dubbio, strumento di conoscenza (per citare il terzo maestro che oggi vogliamo ricordare, l’unico che sia davvero il nostro maestro) è quindi anche una esigenza politica, se questa parola può ancora permettersi un bagliore del suo antico bellissimo significato. Esigenza di far fronte all’insipienza generalizzata, di chi disprezza l’arte e non la capisce, che la disprezza perché non la capisce, essendo per definizione inutile o perlomeno inutile ai fini del profitto immediato e della speculazione.

Mi piace iniziare così questo cammino, con il moralismo e l’idealismo della gioventù, di cui pure non provo vergogna, con il coraggio di essere inattuali e Incauti, con lo sguardo di Giano bifronte, rivolto al passato, ai nostri classici e al nostro antico mestiere, e al futuro, al mondo in cui vorremmo vivere e far vivere i nostri figli.

S. A. Moretti
16 maggio 2008

Louis Jouvet, Prestige et perspectives du Théâtre françai. Quatre ans de torunée en Amérique Latine, Paris, Gallimard, 1945.

Siamo partiti poveri di spirito. Eccoci di ritorno, ricchi di amicizie nuove, riportando con noi, per effetto di una rinnovata parentela, i prestigi dimostrati del nostro teatro. Durante questa odissea drammatica, in ciascun paese nel quale siamo arrivati, abbiamo ricevuto tre avvertimenti; li conosco a memoria:

1. «voi sapete, diceva l’interlocutore, qui non si parla praticamente più francese. La Francia ha perso molto del suo prestigio… un tempo, c’erano molti istituti religiosi che insegnavano il francese, ora, si impara soprattutto l’inglese… avrete un pubblico rado. Ci saranno certo quelli che leggono il francese ma non lo parlano…; altri vorranno andando allo spettacolo darsi l’aria di chi capisce…e poi…il vostro repertorio…per qui…è un punto ancora un po’ più delicato…insomma—sono un po’ preoccupato per il vostro successo…Le persone colte sono poco numerose…il livello culturale non è molto elevato…Il teatro francese lo si ama perché è leggero, svelto…la gente non ama i classici».

2. Gli uomini vogliono solo vedere le attrici e le donne la toilette delle medesime;

3. «ho visto per esempio che avete intenzione di recitare un’opera di Paul Claudel…L’annuncio fatto a Maria…Lì…veramente…ho paura per voi. Non temete per esempio che si possa vedere in quel vecchio che abbandona il focolare e la famiglia un’allusione al capo dello Stato? Quella piccola che cattura la lepre…è la Francia vero? E la sorella cattiva, è molto chiaro, è Hitler?»» … Questi avvertimenti ci sono stati dati tutte le volte, in tutti i paesi. Noi tacevamo, afflitti, in silenzio, con la testa abbassata in una prostrazione che calmava l’interlocutore. … La nostra tournée ha puntualmente contraddetto tutte queste previsioni, e un successo costante ci ha dato ragione.

Il successo, come l’insuccesso, nel nostro mestiere è come tutti sanno perfettamente inspiegabile; ma la ragione di questo particolare successo deve farci riflettere. Questo successo che smentiva i pronostici catastrofici, che contraddiceva quelle congetture nefaste, s’impose con sorpresa alla nostra meditazione e alla nostra curiosità nel tempo libero dei nostri spostamenti.

Quali sono dunque le ragioni di questo successo?

Rispondere che la ragione è nel primato del teatro francese, nell’eccellenza delle sue tradizioni secolari, nella sua universalità, mi era già stato insegnato. L’avevo imparato a memoria nella mia giovinezza. Questa ragione non mi pareva sufficiente per giustificare l’accoglienza che ci veniva fatta e il gradimento che i nostri spettacoli suscitavano. Questa ragione soddisfaceva l’orgoglio nazionale e le dichiarazioni pedagogiche ma non mi convincevano.

La prima causa del nostro successo è più semplicemente anzitutto l’incontro con un pubblico. Questa predilezione dell’America latina per il teatro francese deriva dal fatto che il nostro teatro è per eccellenza un teatro latino, di spirito latino; che i suoi spettatori, i suoi attori e, essenzialmente, i suoi autori, appartengono alla stessa famiglia latina della quale il nostro viaggio ha rivelato la parentela più incontestabile e preziosa: quella della mente e del cuore. … Ma questa parentela non spiega come un pubblico che per buona parte comprende male la nostra lingua preferisce così delle opere difficili, delle quali il meno che si possa dire è che sono difficilmente traducibili a gesti e penetrabili con la sola vista. …Feci quest’obiezione a un giovane studente colombiano e lui mi rispose che provava grande soddisfazione perché credeva di capire tutto. «Ma lei – gli dico – non sa il francese», «Vero, signore, ma io non so neppure il latino eppure capisco perfettamente la messa».

Questa similitudine ardita, questa comparazione, sposta la questione sul suo vero senso: lo scopo del teatro non è di far capire, ma di far sentire; è per il prestigio del linguaggio, per la scrittura di un’opera, che il teatro attinge alla sua più alta efficacia.

I testi, le parole scritte, stampate, l’insieme delle battute, monologhi e dialoghi egli attori con i quali si fa sulla scena una conversazione, questi piccoli mucchietti di segni nero su bianco, su carta, che sono le frasi, il testo, è l’energia umana nella sua forma più perfetta di essiccazione e conservazione. Le parole di una frase o di un verso sono le tracce e le cicatrici dei sentimenti del poeta. … Provare una commedia è liberare il poeta dallo stato fisico, da quell’incantesimo ch’egli ha subito scrivendo la sua opera. Recitare una commedia, rappresentarla, è restituire agli spettatori gli incanti che il poeta ha provocato in sé stesso. Il segreto di queste due fasi, di questa liberazione, di questo esorcismo da una parte, di questa restituzione e di questa comunione dall’altra, definisce il mestiere dell’attore: l’arte di dire, di respirare un testo. …

In Letteratura, l’ultima opera che ci ha lasciato, Jean Giraudoux ha parafrasato questo precetto: «La nostra epoca non domanda più delle opere. La nostra epoca reclama soprattutto un linguaggio. … Il segreto dell’avvenire è il segreto dello stile. L’Europa e il mondo saranno ciò che sarà la lingua di domani».

Signore, Signori, ciò che noi portiamo dal nostro viaggio, noi commedianti, è l’assenso a questo testamento, a quest’ultimo messaggio del poeta, è l’importanza della poesia e del suo linguaggio. Delle miniere di Ouro Preto, del tesoro degli Incas, della savana e della foresta di Haiti, dei gioielli del Messico noi non riportiamo a casa altro che quello che avevamo portato con noi. Non abbiamo scoperto nulla che non possedessimo già: i testi dei nostri autori, la lingua dei nostri poeti. Ma ne abbiamo imparato nuovamente il prestigio e il valore.

traduzione italiana Stefano Moretti

In – principio / musica