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UTOPIE E DISTOPIE A TEATRO
DAL CONTROLLO DELLA REALTÀ ALL’ARCHEOLOGIA DEL FUTURO

Belinskij: Sono stufo delle utopie. Sono stanco di sentirne parlare. Sapete cosa amo fare quando sono a casa? Guardare la costruzione della stazione ferroviaria di S. Pietroburgo.
Tom Stoppard, La Costa dell’Utopia, Naufragio.

1. Utopia e disinganno

Dall’alba dei tempi, l’umanità si è rivolta al futuro costruendo mondi alternativi, non soltanto pensabili ma anche possibili, benché – per definizione – in gran parte irrealizzabili. In contesti storici e con forme differenti, questi “nuovi mondi” rispecchiano e danno voce alle ansie e alle paure collettive, così come ai più insperati desideri di pace, benessere e felicità che tutti gli uomini serbano più o meno segretamente dentro di se. Correndo fianco a fianco come due interminabili e ininterrotte linee parallele, la descrizione del “peggiore dei mondi possibili” e il sogno di una società perfetta hanno assunto le più disparate fisionomie e attraversato le più diverse forme di espressione, passando dal trattato sociologico all’arte visiva, dalla pittura al cinema, dalla letteratura fantascientifica al teatro. Nella teoria politica e nella critica letteraria questi due impulsi irresistibili prendono due nomi precisi: Utopia e Distopia. Sotto le sembianze della paura e del desiderio, le immagini di due realtà apparentemente contrapposte e contraddittorie nascondono un principio comune, un “principio di speranza” – come lo chiamava Bloch – che sembra non abbandonare mai gli esseri umani e che li fa esistere in quanto tali, distinguendoli dagli altri esseri viventi. La stessa idea di Storia – di ciò che è successo e può ancora succedere – è secondo Michel De Certau un mito, che intreccia le origini di una società con ciò che è possibile pensare. La storia è quindi essa stessa, in parte o del tutto, una costruzione utopica, uno degli infiniti mondi possibili. Costruendo e prefigurando le possibili conseguenze del vivere comune e delle proprie scelte, ogni comunità umana ha espresso il desiderio di sopravvivere a se stessa, costruendo per i propri discendenti una società più equa e un ambiente più sicuro nel quali essi potranno vivere e prosperare. Gli eventi hanno però dimostrato che, contro ogni desiderio e aspettativa, nessuna civiltà è mai riuscita in questo glorioso e ammirevole intento; è anzi crollata sotto la spinta della violenza, cedendo agli istinti della sopraffazione e del dominio. Nel corso dei secoli, e nel Novecento in modo particolare, le società ispirate ai princìpi utopici della pace, dell’uguaglianza e della prosperità si sono sovente rivelate dispotiche, autoritarie e tragicamente violente. Tradotte in realtà, le utopie, non-luoghi che aspirano a diventare eu-topie, luoghi felici, hanno assunto forme nefaste oltre che, come c’era da aspettarsi, irrealizzabili. Ancora portiamo i segni del duplice progetto utopico che ha travolto l’Europa del XX secolo, dove l’utopia socialista sovietica e quella nazional-socialista si sono torvamente rispecchiate l’una nell’altra, dando ragione alle più cupe distopie studiate da Hannah Arendt e immaginate da George Orwell.
Ciò nonostante, come ricorda Frederic Jameson, il desiderio chiamato Utopia non può e non deve essere rimosso, così come il suo necessario e speculare risvolto, ossia la descrizione perennemente mutevole di nuove e terrificanti Distopie. Sinché vivrà e avrà coscienza di sé, l’umanità continuerà a immaginarsi migliore, progettando eutopie, così come continuerà a mettere alla prova i propri sistemi di potere e le proprie divisioni sociali dipingendo futuri invivibili. Migliorare la realtà nell’atto di stesso di porla in questione e di immaginarla diversa: questa è la possibilità che ancora oggi offre l’Utopia come archeologia del futuro, scheggia di un mondo alternativo conficcata nello scorrere senza prospettive del mondo presente.
Contrariamente a quanto spesso si pensi e senza che ce ne accorgiamo, l’arte, sorella naturale del pensiero utopico, prosegue la sua continua verifica dei poteri, come instancabile e fantasioso organo di controllo delle istituzioni sociali e politiche, che a loro volta cercano –con mezzi ben più violenti e invasivi – di controllare la realtà. Proprio quando una civiltà sembra avere il fiato corto e poche possibilità di sopravvivere alla Storia, l’arte imbocca la strada ambigua e feconda dell’utopia e del disinganno. Intrecciando sogno e realtà, ogni volta che  qualcuno – politico, scrittore, attore, semplice cittadino – immagina una società futura, migliore o peggiore di quella attuale, egli sa di mentire, di giocare a sospendere il proprio disinganno. Ma sa anche che senza quell’inganno non esisterebbe il futuro e, di conseguenza, non esisterebbero neppure il passato e il presente. Tutti noi, ci ricorda Claudio Magris, come Don Chisciotte sappiamo benissimo che il meraviglioso elmo di Mambrino è solo un misero secchio. Ma, proprio per questo, sapere che anche secchio può diventare un elmo magico è doppiamente utile e necessario ed è una lezione che non andrebbe mai dimenticata. Vivere in bilico tra utopia e disinganno ci rende liberi di vedere le potenzialità del reale, sviluppandone gli aspetti migliori, ma ci mette anche in guardia da chi vuole illuderci, spacciando per verità una qualsiasi menzogna.

2. Tracce di futuro. Come declinare oggi il nesso Utopia/Distopia.

Di fronte al folgorante sviluppo della tecnica e alle strabilianti conquiste ottenute dalla ricerca scientifica nel corso del XX secolo, Herbert Marcuse dichiarava – nel 1968 – la fine dell’Utopia. Provocatoriamente, il filosofo francofortese richiamava l’uomo contemporaneo a una evidenza: per le società delle macchine, della bomba atomica e dell’energia infinita raggiungere lo stato di pace e prosperità non poteva più dirsi utopia, ma possibilità reale, neanche troppo difficile da realizzare. Eppure, a distanza di mezzo secolo, si può dire che l’Utopia non sia affatto finita. I conflitti e le diseguaglianze che lacerano il nostro mondo globalizzato dimostrano quanto ancora sia lunga la strada verso l’Età dell’Oro. Altre Utopie sono nate nel frattempo: l’utopia dell’unità tra le nazioni, l’utopia dell’integrazione tra i popoli e l’utopia del corpo e della sessualità: la tecnica, per mezzo della chirurgia plastica e della biologia molecolare, permette oggi di superare l’umano e la divisione dei generi, aprendo la strada a un altro luogo paradossale, concretamente utopico, come il corpo modificato, post-umano e trans-gender. Al tempo stesso, l’ironia ha voluto che si realizzasser le peggiori distopie preconizzate da scrittori come Evgenij Zamjatin, George Orwell, Aldous Huxley e – in anni più recenti – Margaret Atwood, Bruce Sterling e Philip Dick. Il controllo della realtà, l’utilizzo dei mezzi di comunicazione massivi per scopi bellici e commerciali, l’invenzione di un newspeak che semplifichi e al tempo stesso depotenzi le facoltà intellettive umane sono tutti elementi costitutivi delle società post-moderne e globalizzate.

Prendendo atto della triste “vittoria di Orwell”, desideriamo con questo progetto portare al centro della scena il conflitto aperto tra distopie e utopie, che appare ai nostri occhi non solo come cogentemente attuale, ma necessario per comprendere il presente e gettare ponti nel vuoto del futuro. Teatro, danza, arte visuale, letteratura, cinema e ogni forma di arte performativa sono di sé carichi di potenziali utopici e distopici. Nello spazio e nel tempo reale e immaginario di uno spettacolo o di una performance prendono forma mondi irreali ma possibili, desiderabili o temibili. È in questo frangente che, come scrivera James M. Barrie, «the Never Land comes true».

3. MAI / Eterotopie incaute 2010-2012

Mondi alternativi ir/realizzabili. Distopie e Utopie sono al centro di questo progetto che porta già nel nome il segno dell’utopia. Never never land era del resto il nome dell’isola di Peter Pan, un luogo dove si cerca invano di fuggire alla violenza del mondo adulto e all’avidità del capitalismo britannico e che, a contatto con il palcoscenico, diventa – anche se solo per qualche ora – “vero”.
Mai, sempre: parole assenti dai mondi distopici descritti da Orwell in una delle più celebri e conosciute distopie letterarie del Novecento. In 1984 non esistono passato e futuro, ma solo un eterno presente, continuamente manipolato e sotto controllo. “Chi controlla il passato, controlla il futuro”, recita l’ortodossia del Partito. E proprio dallo studio sul romanzo di Orwell, realizzato in forma di laboratorio nell’estate del 2009 e come spettacolo al Teatro Consorziale di Budrio nella primavera del 2010, nasce per Gli Incauti l’esigenza di ampliare e approfondire la ricerca sulle forme del pensiero utopico e distopico in relazione al teatro e alle arti performative.

Nel corso del 2010/2011 il viaggio sulle orme delle distopie e delle utopie si snoderà seguendo diversi sentieri:

DISTOPIE

1984.
Dal romanzo di George Orwell – regia di Simone Toni

Il percorso di studio sul romanzo di George Orwell, nome de plume di Eric Blair 1984, nasce con Laboratorio ’84, seminario estivo tenutosi negli spazi del San Leonardo di Bologna. In occasione del sessantesimo anniversario della morte di Orwell, il progetto è proseguito con l’allestimento dello spettacolo 1984 per la regia di Simone Toni. Presentato al Teatro Consorziale di Budrio, lo spettacolo andrà in tournée al teatro Filodrammatici di Milano, nella rassegna Aspettando tre per te al Teatro Comunale Filodrammatici di Piacenza e in altri teatri italiani.

Mondo Nuovo.
Studio su Brave New World di Aldous Huxley – a cura di Simone Toni

Dopo Noi di Evgenij Zamjatin e 1984 di Orwell, il romanzo di Huxley è uno dei classici della letteratura distopica del Novecento e riprende con la forza visionaria tipica del romanziere e scienziato inglese uno dei temi cardine, presente già nella prima utopia scientifica scritta in terra inglese, la Nuova Atlantide di Francis Bacon, ma che – in fondo – era già presente nella Repubblica di Platone. Il potere della tecnica asservito alla creazione di una società che si suppone perfetta segna il fallimento dell’utopia, come denunciava Marcuse, e apre le porte alle più aberranti pratiche distopiche, dall’eugenetica al controllo ferreo delle distinzioni tra classi.

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UTOPIE

Un clown dal cuore infranto.
Di Simone Toni da Oscar Wilde e Moses Kaufman – regia di Simone Toni
Parte di una linea artistica e letteraria britannica che va da William Morris a Ursula Le Guin, Wilde rivendicò a gran voce la funzione utopica della bellezza e dell’arte come contrappunto anti-capialistico e anti coercitivo alla rigida e violenta società vittoriana. Scontandone le conseguenze in prima persona, Wilde propose la creazione artistica, che porta a liberarsi dai vincoli del tempo e dello spazio oltre che dagli sciocchi legami del conformismo e del pregiudizio religioso, come una radicale alternativa all’economia di mercato e al colonialismo spietato, inamovibile e pernicioso cardine attorno al quale ruotava l’Impero Britannico. Art for art’s sake, il motto dei dandies e degli esteti, non significava dunque fuggire dalla realtà sociale, ma era al contrario una provocatoria utopia quotidiana, fatta di gesti estremi, attitudini sessuali disinibite e abitudini di vita eccentriche. Utopica era la lotta per il superamento delle distinzioni tra i sessi, delle rigide barriere di genere e la libertà di agire il proprio corpo e l’erotismo senza falsi pudori. Come sarà per Winston Smith nel 1984 descritto da Orwell, anche nell’età Vittoriana l’amore poteva essere un atto politico. Lo spettacolo parla di Wilde prigioniero di quella società che aveva sfidato, intrecciando la lettera che lo scrittore inviò a Mr. Bosie dal carcere, nota come il suo De Profundis, a brani di Gross Indecency di Moses Kaufman e ha come protagonista Milutin Dapcevic.

Madagascar.
Spettacolo migrante in tre capitoli di Marius Ivaskevicius – diretto da Stefano Moretti
Traduzione e prima messa in scena italiana di un testo scritto nel 2004 dal più importante drammaturgo lituano contemporaneo, Madagascar. È la storia semiseria di Kazis Pakstas, studioso di geopolitica che – all’alba della Seconda Guerra Mondiale – propose ai propri compatrioti di emigrare in massa dalla Lituania minacciata dai Sovietici, dai tedeschi e dai polacchi e trasferirsi nell’esotica isola africana, per poter costruire una società pacifica e dare libero sfogo alla fantomatica “lituanità”. L’isola di Madagascar, immaginata più che vissuta, spazio letteralmente utopico, corrisponde così al “posto al sole” che, negli stessi anni, l’Italia fascista cercava un poco più a Nord, nel corno d’Africa. In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la messa in scena di Madagascar offre dunque l’opportunità di riflettere sui concetti di patria, di spazio nazionale e di migrazione – uno dei fenomeni che più interessarono l’Italia unita e che oggi, in modo speculare, riguardano il nostro paese. Al tempo stesso sarà un modo per affrontare il tema dell’Unità dei paesi europei, altra splendida utopia novecentesca che con fatica sembra oggi diventare realtà. L’integrazione tra i cittadini dei Paesi europei, così come quella degli stranieri arrivati in Italia pensando di essere approdati finalmente all’isola di Utopia è uno dei punti centrali del progetto, che prevede al suo interno – nel corso dello studio teatrale – una attività di impegno sociale con le comunità migranti di Torino, in collaborazione con l’Assessorato all’Immigrazione della Provincia di Torino e all’Associazione The Gate, operante nel quartiere di Porta Palazzo, una delle zone più multietniche dell’Italia intera .

Le favole a rovescio.
Le fiabe di Gianni Rodari musicate da Carlo Borsari.
Le favole a rovescio prende spunto dal titolo di una delle nove serie di poesie pubblicate all’interno della raccolta Filastrocche in Cielo e in Terra (Einaudi 1960), l’opera che portò Gianni Rodari alla notorietà come scrittore per l’infanzia, in Italia e all’estero. Capolavoro di pedagogia e didattica sui generis, in cui Rodari si diverte a smontare e rimontare il linguaggio tradizionale delle fiabe per estrarne giocattoli nuovi, Le favole di Rodari mostrano che l’infanzia è la parte importantissima di un iter in cui il bambino si dispone alla crescita, non avulso dalla realtà, ma completamente immerso in essa. Il bambino osserva tutto ciò che lo circonda giocando ed ha bisogno di conoscere e di imparare, sempre giocando. La favola di Rodari, come una Bella Addormentata si sveglia e ci sveglia anche di fronte alla realtà più grigia, all’ovvietà quotidiana, al problema sociale e alla vita familiare, e la magia sta nell’osservare tutto con ironia, ricorrendo al gioco, all’infrazione delle regole attraverso l’invenzione e l’immaginazione. Qui sta il nucleo utopico della fiaba, il suo mettere il mondo “a rovescio”, così come i mondi alternativi, le ore di carnevale e il paese di Cuccagna sovvertono il consueto ordine sociale, infrangono le divisioni istituzionali e l’abituale struttura dello spazio e del tempo. In quella che Eugen Fink ha chiamato “oasi del gioco” (uno spazio isolato assai simile al teatro e all’Utopia) interrompe e sospende le regole esistenziali e politiche su cui si basano la consuetudine del vivere, la separazione dei poteri e l’esercizio della violenza. Nel gioco, nell’utopia e nel teatro si progettano forme di vita e di governo parallele e spesso migliori di quelle che siamo abituati a vivere.