Il teatro continua nel furgone: Gli Incauti, con Hamelin, chiudono Vie dei Festival.

di Stefano Serri (www.concretamentesassuolo.it, giugno 2012)

Nel retro del Teatro delle Passioni, laboratorio quasi magazzino, c’è una porta scorrevole; è già capitato a chi frequenta questo teatro di poter accedere agli ambienti “altri” di questo teatro intimo, evitando di accomodarsi troppo nella consueta platea (ricordo l’itinerante spettacolo su Delfini nel 2009 “Io parlo ai perduti” diretto da Claudio Longhi). Ma questa volta, in ritardo, la porta a vetri si apre sul parcheggio dove, di corsa, gli attori entrano portando al loro furgone ancora acceso i pochi pezzi di scenografia e costumi indispensabili. Si allestisce sul momento il tutto, si ricompone il testo man mano, con l’aria sì d’improvvisare e costruire, ma con un ritmo incalzante tra i sei interpreti in scena.

L’incipit della favola del pifferaio magico, incantatore dei piccoli topi che infestano la città di Hamelin, è cifra oltre che titolo all’opera; parabola che dai fratelli Grimm ha conosciuto diverse riscritture, ad esempio L’Accalappiatopi di Marina Cvetaeva. L’incipit, si diceva: e in realtà solo quello, perché la soluzione finale al problema dei topi non ci viene mostratain questa opera. Che parla di piccoli, naturalmente, con l’indagine che il giudice Montero (Stefano Moretti), combattuto tra i propri incubi familiari e le sfumature della colpevolezza, svolge su un caso di sospetta pedofilia, affiancato da una psicologa dal sorriso seducente e irritante (Giulia Valenti). Vittima indigente e carnefice borghese (interpretati entrambi dallo stesso attore, Luca Carboni ) mostrano un legame ambiguo, sospeso tra un amore esplicitamente dichiarato nella sua purezza e regali provvidenziali alla famiglia del bambino, la cui compiacenza è anch’essa dubbia. Non si arriva al verdetto; a un certo punto allo spettatore stesso non interessa più la soluzione del caso, quanto l’ascolto di tutte le voci. Ci sono comunque personaggi umanissimi, non solo funzioni narrative alla Propp: ad esempio lo spaccato di povertà delle periferie urbane, incarnato nei genitori del piccolo Gian Maria (la dolente mater dolorosa e onnipara di Diana Manea, il verace Marco Grossi, entrambi assistenti alla regia).

Lo spettacolo, andato in scena a Modena l’1 e 2 giugno, è il frutto di un progetto promosso dalla fondazione ERT, la Regione Emilia-Romagna e il Ministero della Gioventù, nell’ambito dell’Accordo GECO 2 (Giovani Evoluti e Consapevoli). Per chi non conosce il testo dello spagnolo Juan Mayorga (autore poco conosciuto in Italia) forse non comprende dove termini l’invenzione dello scrittore e inizi la poesia degli interpreti. La regia di Simone Toni non solo dichiara una meta-teatralità giocosa e continua, dal coinvolgimento degli spettatori in scena (compreso chi vi scrive) all’abbattimento degli spazi e dei consueti confini, ma mostra una possibilità didattica del teatro, mai sentenziosa e sempre coinvolgente: insegnare non solo rispetto al tema (come ascoltare i piccoli, preferendo la favola alla diagnosi) ma anche all’azione scenica. Scopriamo ad esempio che esistono davvero infiniti modi di caratterizzare il silenzio: questo avviene attraverso un personaggio singolare, l’ Actador(Federica Castellini), traducibile come “Didascalista”, un misto tra voce narrante e mano registica scoperta, tra l’Hinkfuss pirandelliano e il Kantor manovratore di automi, ma molto verbale, quasi verbosa, e assolutamente mai neutrale. L’estetica contemporanea, più incline all’urlo espressivo, ha dimenticato la lezione ad esempio di un Jean-Jacques Bernard, che ideò e portò avanti con la sua drammaturgia un vero e proprio “Teatro del silenzio”. In questa opera, che esplora la violenza del linguaggio delle istituzioni (giornalistica, giuridica, pedagogica) davvero non ci si stanca mai di sentire quale direzione possiamo intraprendere seguendo questa didascalia: Silenzio.

Che se poi, mentre noi applaudiamo al termine dello spettacolo, gli attori in tutta fretta ripartono sul loro furgone e scappano via, viene davvero voglia di seguirli. Lo sapevo (ma ci speravo) che andava a finire così: per noi topi di platea è il teatro il vero pifferaio magico.