Hamelin-Quando la città odia i suoi bambini

di Roberto Rizzente  (Hystrio, n. 3 luglio – settembre 2013)

Chi ha abusato del piccolo Gianmaria? Non c’è spettatore che, guardando Hamelin, non sia disposto a interrogarsi sul problema. Prima di scoprire, suo malgrado, che non esiste una risposta univoca. Perché tutta la società, in qualche modo, è colpevole. Paolo Riva, i genitori di Gianmaria, il fratello, la stampa, la psicopedagogista. Quello che, all’inizio, si presentava come un giallo tradizionale, diviene così, tra le mani sapienti di Mayorga, un “giallo infinito”, citando Pietropaoli. Che ci parla d’altro. Della relatività della verità, per esempio. E delle aporie del linguaggio, che tutto nasconde e niente rivela. Merito degli Incauti è quello di aver colto questo dato fondamentale, andando ancora oltre. Dando innanzitutto rilievo al personaggio chiave del testo, l’Acotador, il Didascalista (qui interpretato da una donna). E ppi rafforzandone la dimensione meta-teatrale. Negando ogni verosimiglianza alla scena per decostruirne i meccanismi partecipativi. Un po’ come ha fatto Latella nel Tram di Williams. La sciene viene privata di tutto cià che è inessenziale, superfluo. Se ne mostra l’impianto, la “materia di cui sono fatti i sogni”: luci, specchi, bauli. Rimangono gli attori. Ma essi sembrano messi lì per caso. Entrano ed escono dalla scena, si passano la palla, si scusano con gli spettatori. Muovono da un personaggio all’altro, dalla vittima al carnefice. Quello che gli Incauti, in definitiva, fanno – e lo fanno con una certa abilità – è “mostrare”, attraverso la messa in scena di una “prova”, la finzione del teatro. Una verità che è lì, a portata di mano, eppure interessata o, perlomeno, orientata. Come in Hamelin, dove tutto dice il contrario di tutto, e il colpevole è sempre altrove. Da una simile provocazione il testo di Mayorga ne esce arricchito. E ce lo godiamo tutto, certi di trovarci davanti a un grande esempio della letteratura postdrammatica contemporanea.