Hamelin

di Maria Renda (www.teatro.org, 3 giugno 2012)

Fra le interpretazioni ormai classiche di Shakespeare, fra le opinioni cioè che sono ormai più o meno accettate come punti fermi c’è questa: che nella sua opera, ogni punto di vista è credibile. Anche i personaggi minori hanno una credibilità che deriva dal fatto di possedere diverse sfaccettature, e non una sola. Lo stesso si potrebbe dire per questo complesso e rigorosamente orchestrato testo contemporaneo (Juan Mayorga, 2006) che è Hamelin.

Basato su una storia di pedofilia, il testo riporta il classico caso di cronaca riproponendo la questione in modo problematico: in tempi in cui la psicanalisi ha reso i comportamenti umani anche comprensibili, prima ancora che giudicabili secondo strette dinamiche di bene/male, quale può essere il criterio fondante dell’etica? Come è possibile distinguere ciò che è giusto socialmente da ciò che non lo è? Chi è il vero mostro, quando un mostro è in prima pagina?

La resa del testo, già di per sé impegnativa anche a prenderlo così, paro-paro si direbbe a Roma, è invece riplasmata dalle scelte registiche e dall’abilità della compagnia.

A luci ancora accese in platea arriva, visibile dal retropalco aperto, un furgone: nonostante la cornice, che lascia comprendere che stiamo vedendo uno spettacolo, il gioco è condotto con una gradualità che permette alla teatralità di nascere con quella spontaneità non improvvisata che avvicina il teatro alla magia.

L’entrata quindi è giocata sul limite: un limite che sta sia nella qualità della recitazione – gesti anti-teatrali e al tempo stesso ritmo e quindi chiarezza dello stare in scena – ma anche nell’uso dello spazio.

Questo utilizzo è anch’esso leggero, plastico: cambia facilmente di segno con pochi accorgimenti. Si definisce inizialmente come spazio aderente al qui e ora della nostra visione (è, appunto, il palco del nostro tempo presente, in cui guardiamo la compagnia che monta), per diventare subito dopo il palco dove si sta provando una storia, per diventare subito sala stampa appena la conferenza inizia – ed è interessante come, per farcelo credere, basti non un’affermazione ma una negazione fatta a pubblico: “Questa non è una conferenza stampa”.

In questo modo, la mancanza di scenografie diventa davvero una risorsa, nel momento in cui l’immaginazione dello spettatore si abitua gradualmente a costruire da sé le scene. Questa capacità di “guidare” alla visione di ciò che non c’è riesce perfettamente e incuriosisce. Come?

Una risposta possibile, oltre che nella già detta gradualità, sta proprio nel rapporto ludico con gli elementi della messa in scena: lo spazio appunto, il testo con il continuo dentro/fuori, con le accelerazioni e gli sviluppi.

Diceva Cèsar Brie, riferendosi all’alternanza di immedesimazione/narrazione, che il dentro/fuori rilassa l’attore. In questo caso, ad alternarsi non sono solamente due modi di raccontare, ma anche due diversi piani di narrazione (piano del qui e ora in teatro/piano della vicenda raccontata). In entrambi i casi si mantiene il pubblico (o si riporta, nella seconda parte) nello stesso spazio degli attori: sia la sala stampa che la sala prove sono luoghi in cui il pubblico ha un ruolo chiaro. Questo ruolo è, come nella migliore tradizione drammaturgica, definito spazialmente. Se il luogo è il teatro, il nostro essere spettatori seduti diventa appunto scenico; se il luogo è la sala della conferenza, il posizionamento di alcuni spettatori ai margini del palco insieme agli attori attribuisce ancora una “parità” di livello (so-chi-sono nello spazio).

Il che non impedisce alla regia di tradire questa regola, introducendo elementi del teatro interattivo – operazione che, in questo caso, è anch’essa riuscita, perché viene dopo, e non prima, l’avere reso chiari i termini della “parità”.

Non è una novità, si dirà: ma la leggerezza e la non invasività nella capacità di assegnare a chi guarda una posizione rispetto al gioco porta il pubblico in una zona che è ludica e attiva. E nel momento in cui hai portato lo spettatore a giocare, lo stimolo alla creazione di un immaginario si attiva senza bisogno di forzature. Insomma, oltre che l’attore, questo serissimo e ben congeniato dentro/fuori rilassa anche il pubblico.

Tornando alla domanda iniziale: il mostro chi è?

Le diverse angolature da cui ogni personaggio è visto e mostrato – interessante per esempio una divertente critica alla psicanalisi attraverso il personaggio delle psicologa – la credibilità di ogni voce permettono di non dare una risposta univoca a questa domanda, lasciando la riflessione aperta.

Questa operazione di per sé difficile, sia a livello interpretativo sia registico, è risolta anche grazie ad uno studio particolare e originale del personaggio. Il che ci riporta ad un’altra questione dibattuta: stabilito che in scena l’attore è e non fa, ha ancora senso mantenere l’uso del personaggio?

La risposta in questo caso sta nell’organicità di ogni funzione proposta. Ogni personaggio è cioè riconoscibile nella sua funzione, ma solo per caratteristiche residuali – sintetiche ed essenziali, che non intaccano l’organicità dell’essere in scena. Questo lavoro di sottrazione, questo incontro fra due scelte apparentemente conflittuali – ossia quella di mantenere dei ruoli, che sono utili per una drammaturgia tradizionale nel senso di costruita per quadri, mantenere dei ruoli ma al tempo stesso restare fedeli all’esercizio di una presenza scenica autentica, dà un risultato che sorprende: il che è, in effetti, una soluzione, una risposta originale alla annosa questione personaggio sì/personaggio no.